sabato 25 settembre 2010

Quattro chiacchiere su: casualità, fortuna e kingmaking nei giochi da tavolo...

Quanto dovrebbe contare la sorte in un gioco? E' partendo da questa domanda che ci siamo proposti di ragionare insieme, da blogger a blogger, Bruno e Pinco 11 di Giochi sul Nostro Tavolo. Questo nostro dialogo compare quindi su entrambi i blog, in un gemellaggio virtuale di un giorno :) Preavvisiamo che si tratta di un pò di parole in libertà, senza nessuna pretesa di sviscerare per intero il tema, ma solo con l'obiettivo di stimolare la discussione ... Ok, passiamo ora al tema, partendo prima Bruno con la sua introduzione.

Bruno: Spesso sento dire dai giocatori che lanciare i dadi è sinonimo di un gioco stupido che si basa soltanto sulla fortuna. Alcuni tra i più stimati giochi da tavolo di oggi (soprattutto tra i “eurogames”) non hanno lanci di dado o elementi casuali per niente, o quasi, e questo sembra che sia il non plus ultra. Troppa importanza della fortuna fa male a un gioco. 
Ovviamente anche io non apprezzo i giochi in cui si devono lanciare montagne di dadi, né quelli in cui circostanze importanti dipendono dall’esito del tiro. Un esempio banale del primo caso potrebbe essere il Risiko, dove la fortuna tutto sommato può considerarsi bilanciata, ma è un po’ seccante la quantità di dadi che bisogna maneggiare, per il secondo caso basti pensare a giochi di percorso come la cara vecchia tombola, dove il tiro esatto del numero di caselle da percorrere per l’arrivo è essenziale (assieme al fatto di non prendere troppe penalità).
A volte la seconda eventualità non è però necessariamente irrealistica quando si tratta di simulare qualcosa. E questa per me è la prima pulce nell’orecchio di chi ritiene ludicamente superiore il gioco senza fattore casuale. Per fare un esempio rammenterò una partita che giocai a un gioco tattico (Squad Leader) quando il mio opponente doveva attaccare con forze assai superiori (carri armati più fanteria russi) il mio drappello di difensori tedeschi: avevo il vantaggio di poter partire “nascosto” sulla mappa (con posizioni scritte su un foglietto) manifestandomi solo al momento di sparare, e lo svantaggio di avere pochi punti acquisto e di non poter prendere carri armati.
Pensando di fare una cosa saggia, piazzai su una collina due potentissimi cannoni da 88 mm e disposi i miei poveri fanti sparsi tra i boschi. Quando il nemico si fece sotto i miei cannoni ebbero entrambi due bruttissimi tiri e come da regolamento rimasero guasti entrambi. Due tiri andati male e le mie forze erano ridotte a quattro fessi praticamente impotenti.
Era una situazione in cui la sfortuna può giocare una parte troppo grande? Certamente, è proprio quello che era successo. Era anche irrealistica? No. Premesso che quel tipo di giochi (pur nella loro grande complessità) possono simulare la realtà fino a un certo punto, quello che è successo avrebbe potuto verificarsi per davvero. Ma posso capire che certe scalogne uno non le voglia vivere anche nei giochi.
Gli appassionati dei sofisticati eurogames, dove il sistema di regole è in realtà astratto e la tematica che si sta rappresentando viene spesso “dipinta sul gioco” come un’aggiunta successiva, ovviamente storcerebbero comunque il naso.

P11: Allora, c'è tanta carne al fuoco, per cui cercherò di ragionare su alcuni spunti offerti dal tuo ragionamento. Prima di tutto parto dal presupposto che la quantità di fortuna necessaria in un gioco dipende dall'obiettivo che si pone l'autore: se lo scopo è quello di far interagire delle persone, divenendo l'elemento 'vittoria' secondario, allora di conseguenza non ha senso parlare di fortuna o meno, visto che il fatto di essere meno baciati dall'alea significa solo essere protagonisti delle situazioni sulle quali si ride di più. Pensa, per esempio, a giochi come 'taboo' o 'visual game' o roba di mimi e via dicendo.
L'ambito di riferimento del nostro discorso è quindi quello dei giochi competitivi veri e propri, ossia di quelli nei quali vi sono più avversari che trovano nelle condizioni di vittoria un elemento sul quale scontrarsi: in fondo si è qui sempre davanti ad una competizione 'fra cervelli' e qui direi che se si ragionasse solo sull'aspetto matematico puro e semplice, pur complesso e mediato quanto ci pare, alla fine il gioco si ridurrebbe ad una sorta di 'esercizio' utile solo a stabilire chi ha le migliori doti, appunto, matematiche. La capacità dell'autore quindi può essere anche quella di mettere in gioco diversi tipi di abilità (gli skill , per dirla all'americana), per far si che ci sia un mix di esse richieste per delineare la figura del vincitore: prendendo ad esempio un gioco semplice come Catan, ti posso assicurare che in un brevissimo periodo in cui mi era presa la 'scimmia' mi ero segnato in un sito online ed ero arrivato, nell'arco di un mese, a vincere in certe fasi sicuramente (vado a memoria) almeno l'80 % delle partite disputate, facendo leva sulla assenza totale di negoziazioni (come accadeva quasi sempre), che rendeva il gioco, nella logica dei grandi numeri, lineare. E' chiaro che a prendersela in certe partite si imprecava contro quell'11 uscito 20 volte mentre il tuo '8' è uscito solo 5, cosa matematicamente inconcepibile (si parla di due dadi a sei facce), però ciò che conta non è la capacità del gioco di essere sempre equo matematicamente, ma quella di esserlo 'in media'.
Personalmente, per esempio, amo molto giochi come Descent, così come un amico 'astrattista' ama molto 'World of Warcraft the boardgame', nei quali si tirano manate di dadi, ma nei quali, ti assicuro, ci sono decine e decine di pagine e di regole, che richiedono una applicazione strategica tale da far risultare alla fine divertente tirarli, giusto per evitare che il gioco si riduca, alla fine, ad una colossale equazione ... Poi, se uno è un genio della matematica che invece che comprare la settimana enigmistica risolve una cinquantina di integrali presi dal libro delle superiori, allora in discorso cambia .. ;)

Bruno: Come dirò meglio in seguito, consideraro migliori quei giochi dove non ci sia la possibilità di determinare la sfida con un gran lavorìo matematico, che non trovo nemmeno divertente; dove siano le doti intellettuali della persona prese nel complesso a doversi esercitare per la vittoria.
Proseguendo e passando alla situazione opposta, mi chiedo a mia volta, qual è il vantaggio di eliminare del tutto il fattore casuale? Innanzitutto in verità i giochi dove questo fattore è veramente eliminato sono pochi. Quando ci sono carte da estrarre, l’ordine in cui si presentano è casuale e può avere effetto sul gioco. Lo stesso si può dire in qualsiasi situazione paragonabile. Se le attività degli altri giocatori possono avere effetto (sia come antagonismo che come altro tipo di influsso) su quello che noi vogliamo fare esiste comunque un fattore imprevedibile. E del resto se l’interazione tra i giocatori venisse eliminata avremmo praticamente dei competitori che giocano intorno allo stesso tavolo con le medesime regole ma ciascuno per conto suo, una cosa che certamente non vogliamo, e che però è un difetto che in certi eurogames si verifica per davvero.
Pertanto se esiste veramente gioco, nel senso di interazione, la casualità c’è anche se non si lanciano dadi, perché quello che un giocatore fa si ripercuote sugli altri in maniere difficilmente prevedibili. Ovviamente esiste l’eccezione: i giochi per due persone. Negli scacchi e nella dama, la casualità non esiste. Esiste un vantaggio per chi ha la prima mossa e di esso va tenuto conto, ma non si tira alcun dado e non c’è un terzo incomodo che può introdurre un elemento di randomizzazione nella sfida tra i due opponenti.

P11: Beh, la presenza stessa di più di due giocatori rappresenta, di per sé (salvo quando si parli di gioco a coppie, che reintroduce dalla finestra il gioco a due), un elemento destabilizzante, in quanto quello che gli americani chiamano il kingmaking (ossia l'avvantaggiare, più o meno volontariamente, con una propria azione che sicuramente non garantirà la vittoria, uno degli avversari, decidendo il vincitore) è a sua volta una fonte di aleatorietà. Non si può infatti pretendere che il gioco assicuri la possibilità di elaborare una strategia vincente a prescindere dalle reazioni altrui, se non sacrificando totalmente l'elemento interattivo, il quale, normalmente, dona invece 'divertimento' al gioco. Poi, anche qui, è una questione di obiettivi: parlando lo scorso anno con l'autore di Peloponnes, gli ponevo una domanda, segnalando che il gioco si presentava come poco interattivo e lui mi ha risposto che lo voleva proprio così e che, visto che il gioco lo produceva lui, finalmente era riuscito a proporre un gioco 'light civ' matematico come piaceva a lui ...

Bruno: Il cosiddetto kingmaking, che in questo senso si incrocia anche con la casualità, io personalmente lo reputo un male necessario e difficilmente eliminabile, ma ci ritornerò fra poco. Tornando ai giochi a due, laddove non ci sia l’alea il fattore ludico si perde rapidamente in un faticoso confronto di capacità logiche e mnemoniche più che schiettamente decisionali. Il giocatore di scacchi deve saper prevedere le conseguenze della sua mossa tenendo conto delle probabili contromosse dell’avversario, e dei più probabili sviluppi su un certo numero di turni. Per inciso, il computer fa esattamente questo, sviluppando in maniera “decerebrata” le conseguenze di un’immensità di possibili varianti, mettendole in classifica in termini di vantaggio che apportano, e scegliendo la migliore secondo i suoi parametri. E il computer ormai batte anche i più grandi maestri.
Per me quando ci si sposta su questo tipo di sforzo matematico e logico non possiamo più dire che si tratti di giocare, anche se lo dico arbitrariamente: non mi cimento sulla definizione di gioco, che come tante problematiche apparentemente semplici è sorprendentemente difficile. La frustrazione verso i giochi scacchistici e tutte le situazioni che vi si possono ricondurre l’ho di recente provata con un gioco che mi parve inizialmente molto carino nella sua semplicità: si tratta di Adaptoid della Nestor Games. Su una mappa esagonale i giocatori hanno lo scopo di catturare cinque creature nemiche o spazzar via l’avversario dal terreno di gioco. I pezzi in campo si “evolvono”, nel senso che nascono come creature indifese e immobili (ogni turno se ne può far nascere una) e sviluppano “gambe” oppure “chele” acquistando capacità di movimento e combattimento. Un adaptoid con due gambe ad esempio muoverà di due caselle, uno con una chela potrà eliminarne uno che non ne ha (ma solo se può muoversi!) e quello che ne ha due potrà eliminare quello che ne ha una sola o nessuna, e così via. Una sottigliezza importante è che per ogni arto che si aggiunge l’adaptoid ha bisogno di una casella libera in più attorno a sé per “nutrirsi”, perciò quelli più potenti o veloci diventano in realtà quelli più vulnerabili alla semplice tattica di toglier loro lo spazio vitale.
Poiché esiste la versione computer di questo gioco mi sono cimentato, prendendo batoste incredibili dal computer anche impegnandomi. Bastava però diminuire il numero di secondi che il computer poteva dedicare alla propria mossa ed ecco che cominciava a sbagliare (non poteva più calcolare tutte le variabili) e diventava possibile sconfiggerlo. Cos’era successo? Dopo l’entusiasmo iniziale capii che mi ero trovato in mano un gioco scacchistico, con una serie finita di mosse schematizzate, il paradiso per una macchina. Alla fine in questi giochi l’uomo deve trasformarsi in un processore matematico. Un gioco come Adaptoid può essere accattivante solo fino a che non si diventa esperti che giocano contro altri esperti, a quel punto sarà più una fatica che un gioco.

P11: Gli 'astrattoni', come quelli che hai citato, sono del resto una bella categoria di 'gioco' vero e proprio, alla quale mi dedico spesso 'per contagio', ossia perchè ho un amico appassionato (ha comprato tutti i titoli del progetto GIPF ed alla fine penso di averli giocati più io che lui) e di essi apprezzo, prima di tutto, la loro natura di 'rompicapo'. 
Intendo dire che io trovo divertente, in ultima analisi, nella maggior parte dei titoli astratti, la possibilità di elaborare una strategia, comprendendo i meccanismi di gioco di partita in partita: il vincere contro Tizio o Caio rappresenta poi una soddisfazione immediata, però in ultima analisi che cosa è il prevalere contro la maggior parte degli avversari se non una conferma, per altro indiretta, del fatto di aver compreso in profondità i meccanismi di gioco e di essere arrivati più vicini a risolverlo di molti altri ? Quando ero più piccolo ho giocato a scacchi per qualche anno, ma alla fine mi sono fermato di fronte alla necessità di studiare libri di partite per poter migliorare: qui lo sforzo richiesto per 'rompere' livelli successivi del rompicapo diveniva per me eccessivo rispetto al divertimento offerto, per cui , ancora, credo che si vada nel campo del soggettivo. Uno può, in altri termini, scegliersi un solo gioco, tipo scacchi o go, e passarci la vita ad esplorare e riesplorare tattiche, aperture, schemi di gioco e via dicendo, visto che si tratta di titoli che offrono una profondità enorme (ossia un albero combinatorio quasi infinito), oppure può girovagare tra molteplici titoli, soddisfacendosi (se gli piace) nel capirli uno per uno, divenendo bravo (ma non necessariamente un campione) in ognuno di essi (anche se certi titoli, non così diffusi come gli scacchi, possono consentire di divenire tra i più bravi al mondo in pochi mesi, anche se poi di 'tornei fisici' non ve ne saranno mai, mai tutt'al più online). Provocatoriamente ti chiedo: alla fine, anche in un gioco come gli scacchi, è relativamente più geniale uno che in un anno, partendo da zero, riesce a battere tutti quelli che giocano a scacchi nella propria cittadina magari di 10.000 abitanti, oppure uno che arriva magari ad essere campione provinciale, dopo aver studiato per quindici anni decine e decine di libri di scacchi, imparando da essi, ma mai sviluppando autonomamente una strategia nuova ?

Bruno: ovviamente preferisco quello che ha giocato a scacchi rispetto a quello che ha fatto degli scacchi un lavoro o una ossessione, peraltro anche io quando ho capito cosa vuol dire voler diventare davvero bravi giocatori di scacchi ho decisamente lasciato perdere.

P11: E' chiaro ancora che qui si va nel gusto personale, per cui si deve dire che ha un suo 'fascino' anche l'idea di una persona che si sia fatta accompagnare per anni e anni dalla sua passione per gli scacchi, con frequenza di circoli, amici fissi per partite fisse e così via.
Concordo comunque, in linea teorica, sulla tua conclusione che alla fine il gioco può perdere il suo aspetto ludico, per divenire, a sua volta, una specie di 'lavoro'.. Vabbè, per non divagare troppo, ti lascio al successivo passaggio del tuo ragionamento, ossia quello legato, ragionevolmente, alla classica via di mezzo, tra totale casualità e totale assenza di essa .. ;)

Bruno: Una moderata presenza della casualità in effetti è la situazione più naturale e normale nelle cose, e per questo la preferisco anche nel gioco. Quando si gioca una partita a pallone non si tirano dei dadi, ma non si può sapere esattamente se si riuscirà a far terminare un’azione in gol. Stessa cosa per una giornata in ufficio o un esame universitario o qualsiasi situazione vera o simulata di una certa complessità. Questo per il semplice fatto che non tutti i fattori sono sotto il nostro controllo e le reazioni della controparte non si limitano a mosse rigide e prestabilite come sulla scacchiera. Insomma una situazione reale o realistica non può essere ridotta a un calcolo matematico come una partita a scacchi, bisogna pensarci come esseri umani. Nella situazione ludica questo permette inoltre di godere di quella che è (a mio parere) la parte divertente del gioco, ovvero valutare le proprie possibilità e prendere le proprie decisioni fidandosi del proprio intuito. E questo le macchine non possono farlo, o almeno non sono ancora in grado. Non per niente nei giochi strategici (troppo complessi rispetto a una partita a scacchi) l’Intelligenza Artificiale deve spesso e volentieri barare per mettere il giocatore umano in difficoltà. Perciò anche se il realismo non è un obbligo, la presenza di un elemento di incertezza e casualità è a mio parere fondamentale nello sviluppo di un buon gioco. E una maniera intelligente di intrecciare le decisioni dei giocatori fra di loro è senz’altro superiore alla scappatoia del non farli interagire.

P11: Sono d'accordo anche io: la casualità del resto, se ben utilizzata nelle regole, dona anche rigiocabilità ed imprevedibilità, stimolando i giocatori ad elaborare strategie utili a far fronte a situazioni variegate. Penso qui ad un Magic: chi lo conosce sa benissimo che lo sviluppo dei mazzi (deckbuilding) garantisce a chi abbia le carte giuste e sia un buon stratega un vantaggio cosmico rispetto all'avversario, però la casualità, consistente nel fatto che magari possa uscire al nemico proprio quella combinazione 'giusta' di carte nella prima mano, mette il gamer nella condizione di pensare ad elaborare una contro strategia, divenendo elemento strategico a sua volta. Inoltre il bravo game designer può prendere l'alea come una sfida, nel senso di utilizzarla indirizzandola in modo tale da essere un aspetto divertente in un contesto di gioco non per questo casuale: del resto con i dadi, tornando al tuo esempio iniziale, come elemento di base per giochi di gestione risorse abbiamo visto numerosi esempi, tipo Kingsburg, Macao, Alea Iacta Est, nei quali non necessariamente la loro presenza si è ridotta a casualità, anzi. Sempre in questa logica, poi, penso ad Irondie, collezionabile basato sui dadi, che si propone di fondere elementi alla Magic con l'uso di dadi riccamente elaborati , così come, per andare sul 'classico', ad un backgammon. ...

Bruno: Sulla casualità alla fine pur nella diversità dei pareri individuali o delle motivazioni finiamo, mi pare, per convergere. E vedo che su questo tema i giocatori alla fine per lo più concordano. La casualità serve. Per ritornare all’argomento che hai tirato in ballo prima: il kingmaking, ovvero la possibilità che più o meno volontariamente le azioni di un giocatore ne favoriscano un altro rovinando la correttezza della competizione, vorrei fare un po’ di considerazioni. 
Per iniziare, anche se stiamo cercando di scrivere un articolo serio, parlerò di certe situazioni ridicole che alle volte ho vissuto: quando un giocatore ha una “corte” di succubi, o amici per la pelle ecc… e quindi al di là della logica della situazione ludica ci si trova ad avere dei favoritismi che portano un netto vantaggio a qualcuno. Mi è capitato di giocare una partita a Risiko (tormentone popolare che poi non è affatto male, a mio parere) in cui stavo per soccombere contro uno dei due opponenti, e come succede in questi casi chiesi aiuto all’altro, che era suo fratello minore. In una situazione normale mi avrebbe aiutato perché la mia disfatta sarebbe stata la rovina anche per lui. Invece mi disse: io non potrei danneggiare mio fratello. Mi cascarono le braccia. Cosa avevo giocato a fare allora? Non so se a Pinco 11 sia mai capitata qualche situazione del genere…

P11: beh, gli aneddoti al riguardo delle dinamiche 'metaludiche' si possono sprecare: ho gruppi nei quali sono considerato un giocatore 'bastardo' solo perchè quando compio le mie scelte di gioco non cerco solo di fare punti, ma anche di mettere gli avversari nelle condizioni di non farne troppi e questo è considerato non 'politically correct' (questa è una logica di gioco piuttosto diffusa nella sensibilità femminile). In questa chiave di lettura anche cercare di 'portare via' una città ad un'altro a Carcassonne può essere considerato 'aggressivo'. A Risiko poi anche io ho vissuto situazioni del tipo: 'devo andare, per cui mi scateno attaccando tutti quelli che posso .. ooppss .. ma è una combinazione che confini quasi solo con te ...' :) Il gioco, in ultima analisi, è anche sedersi attorno ad un tavolo per divertirsi con gli amici, per cui, spesso, quello che si impone e la logica naturale degli obiettivi di chi partecipa: per alcuni l'idea è di vincere, per altri di 'capire' le strategie vincenti del gioco e come funziona, per altri ancora solo di passare una serata insieme e chi se ne importa dei punti vittoria .. In questi casi il kingmaking è del tutto involontario .. ;)

Bruno: Più seriamente: per evitare questo tipo di aleatorietà bisognerebbe fare una gara come nell’atletica, dove ognuno ha la propria corsia e i propri ostacoli ecc… Qualcuno fa dei distinguo teorici chiamando queste situazioni delle competizioni e non dei giochi. Io resto fuori dal ginepraio delle classificazioni e mi limito a dire che ognuno si può divertire come vuole ma generalmente l’interazione è necessaria al gioco, e inevitabilmente introduce un elemento aleatorio e arbitrario di cui va tenuto conto, come anche Pinco 11 ha affermato sopra. Quindi bando a ogni discorso purista. Se mai l’interazione va gestita Alcuni eurogames hanno affrontato il tema in maniera intelligente, permettendo di danneggiare gli altri solo in maniera limitata. Il fatto che in questi giochi di solito nessuno venga “buttato fuori” dalla partita è un netto passo avanti. Facciamo un esempio ancora con il Risiko: se io elimino un giocatore e prendo le sue carte posso avere un vantaggio decisivo, almeno in certi momenti della partita. Mettiamo che il giocatore eliminato si fosse indebolito troppo cercando di attaccare: io posso vincere l’intera partita per il semplice fatto che dopo di lui tocca a me, e posso raggiungere i suoi territori per eliminarlo.
Un altro aspetto positivo del porre dei paletti all’interattività è l’evitare quelle situazioni (che troviamo anche nel solito Risiko) dove “tutti danno addosso” al potenziale vincitore. Va a finire che la partita assume un perverso aspetto psicologico, dove il giocatore che sta puntando alla vittoria cerca di far balenare al potenziale attaccante la pericolosità maggiore di qualcun altro, per smontare la classica coalizione contro di lui, nello stile delle grandi alleanze di tutta Europa contro Napoleone. Poi certo, riprendendo il discorso del realismo, sono anche esistite situazioni reali in cui tutti hanno attaccato uno solo, e anche se era il più forte alla fine lo hanno distrutto. E allora si scopre un altro effetto perverso del tutti contro uno, ovvero qualcuno alla fine ci guadagna più degli altri, e nella storia fu la perfida Albione…

P11: Tirando le file del discorso direi che in senso assoluto il concetto di 'bellezza' o 'bontà' di un gioco non può esistere: dipende infatti da quello che gli chiedi, ossia se cerchi qualcosa di più 'deterministico' o 'matematico', oppure se qualcosa che coinvolga più persone di vario livello di esperienza, tenendole tutte attaccate al tavolo senza che scappino. Personalmente ho almeno due diversi tipi di gruppi di gioco, nettamente distinti, con i quali gioco titoli completamente diversi e le 'contaminazioni' tra i due gruppi sono quasi nulle. Da una parte vanno forte i 'tedeschi', gestionali et similia, mentre dall'altra si va sul dungeon crawling , combattimento, miniature e simili. Ho poi un amico 'astrattista', con il quale solo mi trastullo a provare gli astratti.
A seconda del settore in cui ti trovi, quindi, direi che può essere richiesto al gioco rigore matematico (astratti), capacità di riprodurre situazioni reali, dove la fortuna esiste (vedi simulazioni con combattimenti, più o meno fantasiosi), oppure idoneità a coinvolgere i partecipanti in situazioni divertenti (party game). Le varianti sul tema sono poi infinite ed il discorso si può ampliare, menzionando titoli, pur tendenti al 'rigore', che cerchino di mettere in gioco, come accennavo, abilità particolari per delineare la figura del vincitore, come quella di saper 'bluffare', di saper cogliere il momento nelle aste, di saper mercanteggiare con gli altri, di avere maggiori abilità 'diplomatiche' e così via.
La fortuna quindi credo che sia da considerarsi, così come il kingmaking, come uno dei potenziali ingredienti del piatto, di alta o bassa cucina che sia, basta che sia saporito, quale rappresentazione metaforica dal gioco. Ci sono infatti le paste, le carni, i dolci e così via: in ogni categoria di piatto si possono usare diversi ingredienti, così come alcuni di essi compaiono ovunque (un pizzico di sale c'è anche nei dolci .. ;) ).
Dipende quindi di che umore sei come giocatore e cosa chiedi: si possono avere bellissimi titoli in tutti gli ambiti, ma per capire quale è il migliore, sempre soggettivamente parlando, i criteri diventano più 'rigorosi' e l'eccellenza richiede specializzazione. In questa chiave di lettura gli scacchi eccellono perchè cercano, senza mezzi termini, solo di proporre un gioco equilibrato e profondo, guidato esclusivamente dal ragionamento. E' chiaro però che questo può precludere grosse fette di potenziali giocatori ... ;)

Ok, ringraziamo chi, penso non moltissimi lettori, sia arrivato fino a questo punto a leggere questo articolo, anomalo per lunghezza, che rappresenta solo una sorta di spunto di riflessione sulle dinamiche di fondo dei giochi da tavolo, quasi a mo' di piccola 'tavola rotonda' virtuale. Fateci sapere (i pochi che avranno gradito il tutto) che ne pensate :)

-- le immagini a corredo dell'articolo sono relative ai giochi citati al suo interno, i diritti sui quali spettano alle rispettive case produttrici e sono tratte dai rispettivi siti (salvo la scacchiera, foto di Anna Cervova). Le stesse sono riprodotte ritenendo che la cosa possa rappresentare una gradita forma di presentazione del gioco e saranno rimosse su richiesta semplice --

venerdì 24 settembre 2010

Inception

Inception è uno di quei film che dimostrano come gli Americani, che pure normalmente producono film adatti soprattutto ai deficienti, se vogliono uniscono spettacolarità, originalità e profondità rifilando al cinema del resto del mondo (ovviamente mi riferisco principalmente a quello europeo) distacchi irrecuperabili. Possiamo aggiungerci un purtroppo, se vi pare, ma le cose stanno così.
Ovviamente qui siamo alle prese con un regista sbalorditivo (sebbene sconosciuto fino a qualche anno fa) come Christopher Nolan e con un grande attore come Di Caprio, e non solo lui (citiamo Tom Berenger, Ellen Page, Ken Watanabe, Joseph Gordon-Levitt, Michael Caine... eccetera).

L'idea forse non è sensazionale come si dice e sicuramente non sarà originale come a tanti può sembrare (ogni volta che si pensa che una idea sia originale e si indaga un po', si scopre che non lo è, giusto?) ma nella maniera in cui è trattata fa sicuramente effetto ed è intellettualmente stimolante. La trama è orchestrata con la maestria tipica di Nolan, che riesce a rendere digeribile una serie di eventi oggettivamente abbastanza complessa, e allo stesso tempo a incrociare con la trama principale, in maniera credibile, l'ossessione e dannazione del protagonista Cobb/Di Caprio per la moglie morta.

Gli scenari onirici sono, generalmente riusciti alla perfezione (nella seconda parte del film sembra che la regia si sia talvolta "dimenticata" di dare qualche sentore di sogno ai paesaggi e mi riferisco soprattutto alla fortezza in mezzo alla neve). Il concetto di instillare un'idea nella mente di qualcuno in maniera credibile (in modo cioè che il soggetto non la rigetti subito come un'ispirazione non propria o non confacente con i propri orientamenti) viene esplorato in modo intelligente e altrettanto intelligentemente spiegato allo spettatore. L'abboffata di effetti speciali e di scene d'azione è (quasi) sempre in buon equilibrio con l'approfondimento della storia. Una critica che mi sento di fare è che ci sono troppi personaggi perché siano tutti approfonditi in maniera appropriata.

Per quanto riguarda l'effetto cumulativo della distorsione temporale del sogno, mi rendo perfettamente conto che è funzionale alla storia ma a mio modesto parere un organismo che sogna è sempre e solo un organismo che sogna, e se può essere vero che il tempo "immaginario" del sogno può essere più lungo, non vi è una legge che indichi una conversione secondo un parametro certo o prevedibile, e mi pare assoultamente arbitraria l'idea che con i livelli successivi (un sogno dentro un sogno dentro un sogno, eccetera) si possa elevare a potenza l'effetto, e creare una specie di realtà alternativa in cui praticamente sia possibile rifugiarsi per anni.

Ovviamente chi ha seguito le mie fatiche letterarie su questo blog e altrove sa che l'ossessione verso le persone che non ci sono più è una tematica cui sono sensibile, quindi non potevo mancare di essere profondamente coinvolto dai travagli del protagonista di questa storia; trovo anche molto stimolante qualsiasi cosa abbia a che fare con il sogno "lucido" (ovvero quando si è consapevoli di stare sognando), esperienza che peraltro qualche volta mi è capitata.
Inception mi è piaciuto anche più del capolavoro su Batman (Dark Knight); è anche vero che le aspettative sono montate a un punto tale che uno potrebbe aspettarsi anche più di quello che c'è, ma credo che difficilmente resterete delusi se andrete a vederlo.

giovedì 23 settembre 2010

L'atroce nord est

Atroce perché non è che mi abbia portato molto bene visto che ho dovuto buttar via un anno proprio da quelle parti, e perché vi associo un certo numero di tristi storie italiche. Ma non ce l'ho con chi vi abita, beninteso. Quest'anno vi ho speso anche buona parte dei miei pochi giorni di ferie.
Tra i vari luoghi che ho visitato c'è il sacrario militare di Redipuglia, dove riposano centomila soldati italiani (di cui la maggior parte non identificati) caduti nella Prima Guerra Mondiale, un bel record raggiunto anche grazie alla follia dei comandanti militari (primo fra tutti Cadorna) che ordinarono una serie ininterrotta di attacchi suicidi.
Nelle gradinate ci sono le tombe dei caduti identificati, tra cui ho avuto la sorpresa di trovarne uno con il mio cognome (il nome o altri dettagli mancavano), sorpresa che è diventata ancor più grande quando, in seguito, non sono riuscito a stabilire se si trattasse di un mio parente. Stranezze del tempo che passa e dell'avere troppe relazioni alla lontana e poche vicine.
In cima, dietro la cappella, un malinconico museo di oggetti, articoli di giornale, fotografie e testimonianze. Dall'altro lato della strada che porta al sacrario c'è il colle Sant'Elia, museo all'aperto con pezzi d'artiglieria, filo spinato, bossoli e altri elementi d'equipaggiamento, e tante lapidi che recano iscrizioni votate alla retorica più atroce, mi spiace dire.
Una fra tutte: Mamma mi ha detto: VA! E io l'aspetto qua. Obiettivamente è terrificante.
Però un'altra, una sola, aveva il tono asciutto di un epigramma greco. La lapide dedicata a un ufficiale rimasto non identificato:
Seppero il mio nome
Gli umili fanti, quando balzammo insieme
Al grido: "Avanti!"

La città di Trieste, dove ho passato un paio di giorni, è invece una località molto particolare in quanto non si ha del tutto l'impressione di essere in Italia, avendo un aspetto più da cittadina austriaca nel suo centro storico, nonché una forte minoranza slava, cognomi assai insoliti anche fra gli italiani, nonché (m'è parso) troppi uomini biondi in giro rispetto alla media del nostro paese dove sono bionde (tinte) quasi solo le donne. Eppure per via di tante note vicende sanguinose si trovano dovunque riferimenti patriottici e ricordi dei conflitti, dei bersaglieri che giunsero liberatori, di eroi e tragedie, profughi istriani, foibe e così via. Forse, in quest'epoca di particolarismo e separatismo, potrebbe essere l'ultima località del nord a sentire un legame forte per la patria. O forse no?

Dulcis in fundo, giusto un passo oltre il confine con il Veneto e quindi non lontano da quei luoghi, ho avuto il piacere di ripassare davanti alla caserma dove buttai via un anno della mia vita nel servizio militare di leva. E' passato così tanto tempo che mi sono quasi stupito di ritrovarla lì, e praticamente uguale.

domenica 19 settembre 2010

Le donne combattenti russe 1941-1945

Riprendendo il discorso sulle donne guerriere, iniziato tanto tempo fa, è doveroso parlare di un'esperienza praticamente unica nella storia moderna, ovvero la massiccia partecipazione delle donne russe alla Seconda Guerra Mondiale (intesa come prender parte direttamente ai combattimenti). Nel conflitto le donne sono intervenute un po' in tutti i paesi, ma generalmente la loro partecipazione è stata generalmente limitata a ruoli non combattenti anche se magari non esenti da qualche pericolo. Per esempio, negli USA venne istituito un corpo di donne pilota che aveva il compito di sostituire i maschi in tutta una serie di compiti non di combattimento: ad esempio trainare alianti che facevano da bersaglio per le esercitazioni, o far volare un aereo dal luogo di produzione a un aeroporto militare; a queste aviatrici non venne riconosciuto lo status di militari, il che non impedì che qualche decina morisse in incidenti.

Il conflitto tra Germania e URSS invece vide presto le donne in prima linea. Va chiarito che l'esercito sovietico non le desiderava particolarmente, e dopo il conflitto si è assai scarsamente servito delle donne soldato (e sempre in ruoli non combattenti). Ma le condizioni della Seconda Guerra Mondiale erano eccezionali: per quanto fosse un esercito di proporzioni colossali e con armamenti qualitativamente non disprezzabili, l'Armata Rossa venne inizialmente travolta soffrendo perdite elevatissime, e questo permise all'invasione tedesca di penetrare in profondità. Si rivelò il carattere di guerra totale di questa invasione, che vide fin dall'inizio brutalità e stermini indiscriminati. Questo fu il principale motivo che spinse numerose donne a prendere le armi. Le necessità militari spinsero le autorità ad accettare questo contributo che, nella maggior parte dei casi, non era stato sollecitato.

Le donne parteciparono in tutti i ruoli: infermiere, addette all'artiglieria contraerea (ruolo che potrebbe sembrare non di prima linea ma ugualmente pericoloso), tiratrici scelte, spie, combattenti partigiane, carriste, equipaggi nelle navi, piloti di aerei da bombardamento e da caccia. Ovviamente non mancarono nella fanteria.

Le donne pilota sono state  senza dubbio le più famose. Marina Raskova (vedi foto a destra), pioniera dell'aviazione russa, ottenne da Stalin il permesso di organizzare le prime unità femminili da combattimento. La Raskova, che aveva una valida preparazione tecnica ma pochi collaboratori altrettanto esperti, si sforzò di trovare donne che avessero già esperienza di volo: qualcuna ce n'era grazie al Komsomol, organizzazione giovanile del partito, che fra le tante attività aveva insegnato il pilotaggio a molti giovani sovietici. Nacquero così le famose Streghe della Notte, unità di disturbo che volavano su piccoli biplani PO-2. Si trattava di aerei di legno il cui ruolo era stato quello di addestratori. Recuperati alla guerra, erano senz'altro robusti ma assai poco performanti.
La loro lentezza paradossalmente era un vantaggio perché i caccia dell'Asse avevano difficoltà ad attaccarli: se li avessero presi accuratamente di mira sarebbero scesi sotto la velocità di stallo.
Marina Raskova morì in un incidente ma molte delle sue allieve giunsero ad accumulare una quantità impressionante di missioni di bombardamento. Il primo teatro di guerra fu quello della penisola di Taman (a est della Crimea, dall'altro lato dello stretto di Kerch che congiunge il Mar d'Azov al Mar Nero). Il loro ruolo era fondamentalmente di disturbo perché il carico di bombe era assai limitato. Partivano da campi molto rudimentali a ridosso delle prime linee e compivano anche diverse missioni in una sola notte, cercando di sfuggire ai riflettori e alla contraerea con diverse ingegnose tattiche di pattuglia (ad esempio: un aereo che cerca di colpire i riflettori e si fa vedere, mentre un altro cala sul bersaglio a motore spento).
Altre donne pilotarono dei bombardieri più pesanti (PE-2) e ci furono pure le donne pilota da caccia. Sembra che il 13 settembre 1942 sia stato il giorno del primo abbattimento da parte di una donna, quando Lidya Litvyak ebbe la meglio su un asso tedesco presso Stalingrado (il poveretto non credette di esser stato abbattuto da una donna fino a che lei stessa gli descrisse com'era andato il combattimento). La Litvyak volava in un reparto di uomini assieme a poche altre donne; pilotava uno Yak-1, aereo piuttosto rudimentale, che soffriva spesso per la costruzione effettuata con materiali scadenti o imprecisione nell'assemblaggio. Nell'agosto 1943 Lidya Litvyak venne abbattuta dopo aver conseguito 11 vittorie contro gli aerei tedeschi (più un pallone aerostatico). Per conferirle la decorazione di Eroe dell'Unione Sovietica il partito voleva conferma che fosse morta e non finita in prigionia. Facendo uso di testimonianze venne trovato il suo luogo di sepoltura (ai tempi di Gorbachev) ma non venne esumata. Pertanto rimane il dubbio (secondo altre fonti) che sia stata fatta prigioniera dai Tedeschi o che sia sopravvissuta in qualche modo alla guerra.

Le donne con competenze di macchinari e veicoli si trovarono spesso a guidare automezzi nelle forze armate. Dal momento che le forze corazzate mancavano di personale addestrato, le donne si trovarono presto anche alla guida dei carri armati. Irina Levchenko, il cui padre era stato vittima del terrore voluto da Stalin, passò da un ospedale per bambini a un'unità corazzata, dove le sue mansioni non prevedevano il combattimento. Respinte le sue richieste di passare alle truppe combattenti, persuase l'ufficiale che l'aveva rifiutata scoppiando a piangere e implorandolo. Questi allora acconsentì e fece in modo che la Levchenko ricevesse il certificato di idoneità fisica che avrebbe dovuto esserle rifiutato in quanto la donna, che aveva già ricevuto la prima di numerose ferite di guerra, era invalida. La Levchenko morì a soli 48 anni, dopo la fine della guerra; scrisse però delle sue esperienze.

Oktyabrskaya Mariya Vasil'yevna vendette tutto quello che aveva alla notizia della morte del marito sul fronte. Con il suo denaro e le donazioni che raccolse, raggranellò il necessario per finanziare la costruzione di un carro armato e chiese di poterlo guidare. Nonostante fosse una donna di mezz'età, e di piccola statura, le fu concesso. Se la storia sembra un'invenzione di propaganda, considerate il fatto che il marito era un ufficiale politico e lo stesso nome di questa eroina era stato cambiato in onore alla rivoluzione di ottobre. Vista inizialmente con sospetto dai giovani carristi la Vasil'yevna riuscì a farsi onore in diverse battaglie. Nel gennaio 1944, uscendo dalla protezione del suo T34 per riparare un cingolo danneggiato dalle armi anticarro nemiche, venne ferita a morte da un'esplosione. (Nella foto un carro T34 da me fotografato in un museo di Londra)

Far parte del personale medico sembrerebbe una buona scelta per rimanere fuori dalle peggiori situazioni della guerra, ma le cose sono molto diverse per gli infermieri sul campo di battaglia, che devono recuperare i feriti (e le loro armi) senza aspettare il termine del combattimento. Molte donne in questa mansione ebbero i primi scontri a fuoco per salvare le vite dei feriti, e una volta imbracciate le armi non le hanno più lasciate, unendo ai compiti sanitari quelli di combattimento, o passando direttamente nella fanteria. Moltissime di queste donne sono morte perché la fanteria scompariva a ritmi impressionanti nel tritacarne della guerra. Ricorderò l'infermiera Mariya Borovichenko, sergente medico ed esploratrice, orfana sedicenne che nel 1941 si segnalò per le audaci ricognizioni in territorio nemico e la cattura di soldati tedeschi. Nel 1943, qualche mese dopo aver perso il fidanzato ucciso a Stalingrado, cadde lei stessa nella battaglia di Kursk. Il suo generale scrisse un libro su di lei, e dal libro venne tratto il film Non esistono militi ignoti (dubito abbia mai raggiunto le nostre sale).

Se combattere nella fanteria è ruolo brutale e mortifero, le numerose donne entrate nelle file partigiane hanno spesso avuto la fine più tragica di tutte. I partigiani russi sono nati a volte spontaneamente, a volte i gruppi sono stati organizzati con l'invio di agenti da parte dei comandi, talvolta sono nati da nuclei di soldati sconfitti nelle prime battaglie: travolti dall'avanzata tedesca, si erano dati alla macchia per organizzare in un secondo tempo la resistenza. Riforniti dall'aria e a volte in contatto con i comandi per mezzo di potenti apparecchi trasmittenti, i partigiani riuscirono a mantenere un collegamento per quanto minimo tra il governo e la popolazione delle zone occupate, a disgregare l'economia di guerra tedesca, a sabotare le importantissime linee ferroviarie (anello debole della logistia germanica), e infine a raccogliere importanti informazioni. Le donne, che l'esercito russo tollerava a fatica tra i propri ranghi, sono state accolte volentieri e impiegate cinicamente in questo tipo di ruoli speciali, assegnate alle missioni d'infiltrazione più rischiose, paracadutate senza rimorsi dietro le linee nemiche per organizzare la resistenza. Avendo maggiore possibilità di muoversi ed essendo meno sospettate rispetto ai maschi, godevano di un indubbio vantaggio in questo compito. A volte entravano al servizio dei tedeschi come cuoche, o diventavano le amanti degli ufficiali per raccogliere informazioni e anche per ucciderli a tradimento, quando al posto di un incontro galante il tedesco si trovava alle prese con i partigiani che lo uccidevano all'arma bianca. Inevitabilmente seguiva la reazione di collaborazionisti, SS e polizia militare, e queste operazioni ad alto rischio finivano nella dispersione dell'unità partigiana; le donne combattenti hanno conosciuto torture, imprigionamenti senza speranza, impiccagioni e fucilazioni. Nelle storie di donne decorate come Eroe dell'Unione Sovietica che ho letto, praticamente tutti i nuclei partigiani sono stati debellati con la morte della maggior parte dei costituenti, quando non di tutti. Certamente non era un ruolo per chi voleva vivere a lungo.

Da menzionare anche le tiratrici scelte, uno dei pochi ruoli in cui le donne erano apprezzate per la pazienza e la tenacia che sapevano infondere in un lavoro difficile e solitario. Le tiratrici scelte russe hanno, cumulativamente, eliminato l'equivalente di una divisione tedesca.

Un dettaglio importante, che ci fa capire quanto la massiccia partecipazione al conflitto da parte della donna russa fosse dovuta principalmente alle gravissime condizioni in cui si era venuto a trovare il paese: diverse di queste eroine non credevano  che per le donne fosse appropriato occuparsi di cose militari. Per esempio: Raisa Aronova (pilota delle "Streghe della Notte") non riteneva che il servizio militare fosse adatto alle donne salvo la situazione eccezionale in cui lei stessa si era venuta a trovare; era particolarmente lieta di trovarsi in un'unità completamente composta da donne dove "lo spirito femminile regnava supremo," ovvero vi erano ordine e decenza. Marina Chechneva, autrice di diversi libri sulla guerra e anche lei pilota, dichiarò che sebbene le sue compagne d'armi avessero superato spesso gli uomini per coraggio e abilità, la guerra non dovrebbe essere affare da donne, salvo casi eccezionali.

Le motivazioni che spinsero queste combattenti sono legate soprattutto al fatto che la guerra stava travolgendo il loro paese e arrivando fino al focolare domestico, e non si trattava di una guerra ottocentesca tra sovrani, dove al popolo poteva importare poco o niente del risultato, ma di una guerra di annientamento dove non c'era scampo o rispetto per nessuno. Sempre per lo stesso motivo le donne combattenti venivano da tutte le estrazioni sociali. Alcune avevano ricoperto cariche nel partito comunista e di conseguenza spesso ottennero dei comandi o presero il ruolo di ufficiale politico, ma vi furono anche le combattenti che provenivano da famiglie ferocemente perseguitate dallo stalinismo, che oltre alla difficoltà di farsi accettare in quanto donne soldato avevano anche il problema di dover combattere i sospetti del partito.
In effetti è notevole come la ferocia di Hitler valse a riavvicinare al regime sovietico perfino molte persone che avevano sofferto nelle galere di Stalin.

Alcune delle donne abbracciarono la vendetta quasi come un fatto personale: Tamara Konstantinova, pilota dei bombardieri tattici Il-2, prese le armi quando perse il marito, anche lui pilota, abbattuto sul fronte di Leningrado. La Konstantinova lasciò a sua madre la figlia di due anni e si adattò a tutte le mansioni (compreso guidare camion nelle colonne logistiche) fino a che riuscì a coronare il proposito di sostituire il marito come pilota su un aereo da guerra. Perennemente in aria, diceva di non concedersi riposo perché "combatteva per due".

Le donne si sono servite di vari mezzi per arrivare alle armi in un esercito che, se da un lato non poteva rifiutarle categoricamente (per via delle dottrine politiche), dall'altro fondamentalmente non le voleva, contrariamente a quello che in occidente si è a lungo creduto. Insistenza, lagnanze, lettere ai potenti e sfruttamento di ruoli sociali e politici delle donne stesse o dei loro mariti o parenti, nonché la scappatoia di entrare nei servizi ausiliari (infermiere, guidatrici ecc...), farsi insegnare l'uso delle armi e infilarsi nel combattimento alla prima occasione. Raramente vi era un qualche tipo di richiamo femminista nel reclamare un ruolo di combattenti.

Alcune sono diventate potenti ispiratrici e leader sul campo di battaglia, anche nel ruolo di ufficiali politici. Come abbiamo già visto diverse non sentivano il ruolo militare veramente adatto alla donna, e spesso hanno abbandonato le forze armate al termine del conflitto, spesso sposando uomini conosciuti nelle unità militari.

La conclusione che posso trarre è che, pur arrivando alle armi in massa e facendolo nel paese del comunismo, queste donne non si siano comunque ritagliate un ruolo particolare, o diverso da quello maschile. Forse vi era una peculiarità nella vita di reparto, operosa e ricca di fermento culturale quando le unità erano composte da sole donne, al contrario della consueta bestialità delle caserme maschili, ma non c'è stato un modo "diverso" di essere soldato. Quando cadde la Germania e lo stupro etnico giunse come una nemesi su milioni di donne tedesche (a volte con incluso omicidio o suicidio), le donne soldato russe ridevano o se ne freegavano, e credo che l'idea di una "solidarietà di genere" non le abbia minimamente sfiorate.

Principale fonte per questo articolo è il libro di Kazimiera J. Cottam Women in War and Resistance (ed. Focus), una breve biografia di tutte le donne decorate come Eroe dell'Unione Sovietica. Il libro della Osprey Heroines of Soviet Union può essere un'altra fonte consigliabile, e potete vederne una anteprima qui. Entrambi i testi sono in inglese.

mercoledì 15 settembre 2010

Ebook, punto della situazione

Mi sono dotato di un lettore di ebook già da tempo, ma quasi ogni giorno arrivano notizie che fanno affievolire il mio entusiasmo.
Innanzitutto nonostante tante belle parole le case editrici che si stanno attrezzando per iniziare a vendere libri digitali in Italia sono ancora poche e quindi il mercato non offre moltissimo. Fra non molto dovrebbe iniziare l'attività il nuovo negozio online di Telecom, e a quanto sembra avremo la stessa situazione che si è presentata con Sony, Amazon, Barnes & Noble, Apple: ovvero il tentativo di blindare il cliente dandogli un apparecchio dedicato, che può fare automaticamente acquisti online ma solo presso il negozio del produttore o da esso sanzionato, il quale guarda caso gli fornisce files di un formato proprietario o protetti dal DRM.
A queste condizioni il sottoscritto preferisce comprare i libri di carta.

In secondo luogo gli apparecchi sono ancora ben lontani dalla perfezione. Spero ancora in certe novità annunciate e mai arrivate, ma per adesso abbiamo dei lettori che sanno fare decentemente il loro mestiere, e però poco altro, e altri apparecchi (di solito i tablet pc) che vengono "spacciati" per ebook reader mentre invece il loro mestiere è di far meglio altre cose, i libri te li fanno leggere con il normale schermo LCD (non che siano illeggibili, certo non fa molto bene alla vista).
Del resto gli schermi e-ink sono ancora un po' troppo... grigi.

Infine le capacità tecniche e multimediali dei nuovi apparecchi fanno balenare certe possibilità di arricchimento del libro che in qualche caso reputo relativamente innocue (compilation musicali per leggere il libro con la colonna sonora consigliata dallo scrittore... un bel problema per me che preferisco leggere in silenzio) in altri mi sembrano trasformazioni discutibili di quello che il libro dovrebbe essere: rimandi a link sulla rete, o l'interattività del contenuto, con la trama che può cambiare a una seconda lettura (non ho capito se si tratta di qualcosa di simile ai famosi libri game, che però non erano libri ma più che altro giochi).

Il fatto che il libro possa essere in parte snaturato mi preoccupa, ma bisogna vedere cosa poi accadrà, e in che misura. Non è il caso di chiudersi a riccio prima ancora di aver capito. Mi sembra però scontato che dal punto di vista distributivo si stia passando da un male, ovvero la catena di distribuzione delle librerie, dove arriva solo quello che gli editori più forti impongono, a un altro, cioè il monopolio di grandi catene di distribuzione elettroniche che, per analogia ad altre simili situazioni, sospetto si concludera dopo la consueta lotta di potere nella bestialità di avere più o meno tutti i libri (digitali) del mondo in mano a un unico soggetto. Non vi spaventa? Siete matti, se non vi spaventa.

Ma non è che io mi sia pentito di aver comprato un lettore. L'ho voluto slegato a un editore particolare e così è, e non me ne pento. Quello che deve accadere accadrà comunque, ma per non far accadere il peggio inviterei tutti a evitare la scelta più facile e conveniente (oggi come oggi, comperare il Kindle) e a rifiutare il DRM.

Nella foto, il Samsung E60, appena nato e già troppo costoso per quello che fa.

domenica 12 settembre 2010

Cyclades

Gioco da tavolo di Ludovic Maublanc e Bruno Cathala, Cyclades rappresenta un mondo di isole, mare, divinità e guerrieri, palazzi e triremi. Insomma un'antica Grecia selvaggia e mistica. Bella ambientazione, e anche il gioco nella sua semplicità non è male.
I giocatori si guadagnano (puntando al rialzo) il favore degli dei, con il cui aiuto costruiscono le armate e le muovono, o creano edifici, e migliorano le proprie finanze. Vedasi la seconda immagine: non tutti gli dei si manifestano in tutti i turni, tranne Apollo che c'è sempre: si estraggono delle listarelle di cartoncino su cui sono raffigurati e i loro poteri vengono contesi solo quando sono disponibili.
Poseidone, dio del mare, permette di costruire le flotte e i porti. Ares fa costruire le fortezze e gli eserciti di fanteria. Zeus serve per avere templi e sacerdoti, mentre Atena dà filosofi e università. Con l'aiuto di Apollo invece si guadagna denaro. Tutto ciò ha un ruolo nel gioco, per quanto le meccaniche siano estremamente semplici. Lo scopo della partita è quello di costruire due megalopoli, e per costruirle bisogna innanzitutto avere lo spazio fisico a diposizione (con le poche isolette disponibili, questo significa per forza espandersi), e poi creare i quattro edifici fondamentali che possono essere "scambiati" con una megalopoli.
Ci sono anche le creature mitologiche: esse possono venir manipolate, a un prezzo. All'inizio del gioco c'è poco denaro circolante e nessuno ci fa davvero caso, ma in qualche turno cominciano a diventare interessanti. I loro effetti possono essere devastanti (soprattutto i danni che possono essere arrecati alle navi, quei poveri gusci di legno che navigavano quasi sempre sottocosta). Ogni mostro o creatura mitologica ha il suo potere particolare; usandoli al momento giusto ci si può prendere un deciso vantaggio. Io in una partita, con l'aiuto di un mostro marino, ho fatto tabula rasa delle flotte degli altri giocatori (il mostro è raffigurato con una miniatra di plastica, è quella chiazza bianca in mezzo al mare, nella terza immagine).

Bel gioco, bei componenti, regole semplici e partite brevi. Direi che posso dare a Cyclades un giudizio molto positivo.

martedì 7 settembre 2010

Solomon Kane (i racconti)

(Nota: questo è il link al mio commento sul film omonimo)

Quando ho visto in libreria il libro della Newton Compton Editori a un prezzo convenientissimo non ho resistito alla tentazione. Il prezzo ridotto l'avevo interpretato come la mancanza di diritti da pagare, in quanto Robert Howard, l'autore dei racconti sullo spadaccino puritano Solomon Kane, si è sparato un colpo in testa oltre 70 anni fa, quindi sospettavo che il materiale fosse ormai di pubblico dominio; in realtà (la legge allora vigente era diversa) le cose non stanno così. Motivo in più per leggere questo libro, visto che l'uscita del film ne ha trascinato la stampa, ma la pellicola ha mancato le aspettative di botteghino (non è un capolavoro, ma a me non è spiaciuta) e gli attesi seguiti sono diventati a questo punto improbabili.

Il personaggio è ben riuscito a mio parere. Magari piuttosto unidimensionale (non diversamente dall'altro grande eroe Howardiano, Conan) però valido per colpire l'immaginazione del lettore. E' sostenuto dalla fantasia dello scrittore, che sa creare figure vivide, catturare la fantasia e invitare il lettore a immergersi nella narrazione. Solomon Kane mi ricorda l'eroe dei fumetti italiani Tex Willer, solo che la sua ricerca di torti da raddrizzare non è una professione come per il ranger di Bonelli, ma un vagare senza meta, un destino, quasi un tormento. Viene descritto come un uomo di ghiaccio, impassibile e implacabile, ma allo stesso tempo il male e l'ingiustizia gli mandano il sangue alla testa. L'analogia con Tex è rafforzata dalla presenza di "cattivi" eccezionali, e di misteriosi alleati (lo sciamano nero che lo aiuta con la magia).

Il contenuto è disuguale. Ci sono dei poemi e dei frammenti, su cui mi astengo di proporre un giudizio, e delle storie brevi, alcune delle quali molto azzeccate; meno riuscite forse quelle più lunghe. Le vicende di Kane spaziano per i più diversi palcoscenici e tra questi una parte importante la ricopre l'Africa. Purtroppo qui l'autore, forse anche per via dei gusti dei tempi, ci propone un'Africa di cartapesta, come se fosse una regione sconosciuta su cui si può inventare tutto. Perciò vi compaiono misteriosi regni con tanto di castelli, civiltà morenti che traggono origine dall'antichissima Atlantide, il tutto non di rado condito con un razzismo piuttosto fastidioso nei confronti dei neri. Un esempio è La Luna dei Teschi, racconto che ho trovato deludente e debole nel finale. Magari qualcuno non sarà affatto infastidito da quest'Africa di cartone, per me invece è un difetto abbastanza vistoso. Ovvio che bisogna considerare che il materiale è datato.

I personaggi femminili (vedasi ad esempio Le Lame della Fratellanza) sono come voleva un certo cliché dell'epoca, vittime tremebonde e terrorizzate, simboli di purezza che l'eroe deve preservare dalla lurida lussuria e dalla violenza dei "cattivi". Non amo le eroine ammazzasette di oggi (le famose Modelle con lo Spadone, o con un'arma da fuoco a seconda dell'ambientazione...) ma decisamente andiamo nello stantio. Si potrebbe controbattere che in Conan molti elementi sono simili e tra essi l'immagine della donna. Però Conan si smarca dalla realtà e vive in un mondo del tutto fantastico, e per questo il risultato finale è molto meno stridente. Solomon Kane con il suo mondo fantasy inserito a cavallo del '700 o in un'Africa completamente inventata, e con i suoi cliché datati lo trovo a volte debole.
Giudizio finale: Howard scrive bene, ci sono alcuni racconti validi, ma Solomon Kane va contestualizzato nell'epoca in cui fu scritto  per poterlo leggere, molto più di altre opere del periodo.

venerdì 3 settembre 2010

La Mano Sinistra delle Tenebre

Torno a Ursula LeGuin per leggere un suo successo di (ormai) parecchi anni fa: La Mano Sinistra delle Tenebre è del 1969 (vinse i premi Hugo e Nebula) ed è un romanzo autoconclusivo anche se fa parte di un ciclo, il Ciclo Hainish, su cui l'autrice ha molto lavorato negli anni '60 e '70 ed è poi ritornata anche in periodi più recenti. L'elemento che contraddistingue il ciclo è il nuovo contatto tra le civiltà degli umani, che si sono diffusi su diversi pianeti in un'epoca lontana ma poi si sono isolati, come se fosse intervenuta una specie di Medioevo a far decadere una prima civiltà interstellare. Ora una comunità di pianeti riunisce le varie civiltà umane: è l'Ecumene, che cerca di ricucire una confederazione, tra mondi dove a volte l'umanità si è assai differenziata. Ma non ci sono astronavi capaci di volare a velocità e distanze fantastiche: i contatti sono lenti, le navi viaggiano a una velocità inferiore a quella della luce (ma c'è un modo per trasmettere l'informazione istantaneamente).

In questo libro un giovane inviato, Ai, entra in contatto con la civiltà di Gethen, dove l'umanità affronta condizioni estreme di temperature rigidissime e scarsa varietà di animali e piante per supportarsi dal punto di vista alimentare. La razza dei Getheniani è ermafrodita: assumono caratteristiche sessuali una volta al mese, quando si trasformano casualmente in maschi o femmine e vanno in calore come animali, sebbene siano in grado di tenere questi istinti sotto controllo, volendo. In questo ambiente esistono inoltre diverse civiltà: ne vediamo due, una è una specie di mondo feudale (per quanto non manchino la radio e i veicoli a motore) e l'altra è praticamente una versione appena un po' soft del comunismo di stampo sovietico.

L'inviato si trova costretto a manovrare in un mondo di intrighi e in due società nelle quali, per motivi differenti, sarà assai poco capace di districarsi. A parte le finezze psicologiche e politiche che si rivelano a volte troppo complesse per il nostro eroe, c'è anche la continua sorpresa di una razza che sembra fatta di eunuchi, ma non è così, però non sono neanche maschi, e nemmeno femmine... Centrale è il rapporto con un personaggio del posto, con cui Ai dovrà percorrere una difficile strada di conoscenza dell'altro, che non sarà mai completa. Allo stesso tempo gli toccherà un'altra odissea in un mondo di ghiaccio e di condizioni meteorologiche terribili, per poter varcare una frontiera che gli è diventata pericolosa.

Non voglio dire di più, ma raccomando questo libro che, sebbene non lughissimo (meno di 300 pagine nella versione tascabile della Tea) contiene una ricchezza di dettagli nell'ambientazione e un'abilità di caratterizzazione dei personaggi da avere del miracoloso. Qualcosa mi ha lasciato perplesso: ad esempio, il fatto che i Getheniani siano ermafroditi (e quindi in parte donne) è visto come possibile spiegazione della mancanza di guerre... direi un'idea molto discutibile, molto datata. Ma l'insieme è di una grande coerenza e credibilità. Ed è scritto magistralmente da una protagonista del fantastico.